dimanche 28 décembre 2025

Sono andata nell'ufficio di mio marito per restituire qualcosa che aveva dimenticato, ma l'edificio era deserto.

 

Sono andata nell’ufficio di mio marito per restituire qualcosa che aveva dimenticato, ma l’edificio era deserto

Non avevo programmato di andarci.
In realtà, avevo programmato l’esatto contrario: una giornata tranquilla, la spesa, qualche commissione, forse un caffè con mia sorella. Poi, mentre sparecchiavo la colazione, l’ho visto sul tavolo dell’ingresso. Un oggetto piccolo, quasi insignificante, eppure immediatamente riconoscibile.

Il badge.

Quello che mio marito usa per entrare nel suo ufficio.

L’ho preso in mano e ho sorriso tra me e me. Non era la prima volta che dimenticava qualcosa. Chiavi, telefono, documenti. Era fatto così: sempre con la testa piena di pensieri, sempre un passo avanti rispetto a dove si trovava davvero.
Gli ho scritto un messaggio per avvisarlo, ma non ha risposto. Probabilmente era già immerso nel lavoro, come spesso accadeva.

Così ho deciso di portarglielo io.

Il suo ufficio non era lontano. Un edificio moderno, di vetro e cemento, in una zona che avevo visitato poche volte. Di solito, quando lo andavo a trovare, era pieno di persone: voci, passi, ascensori che si aprivano e chiudevano, telefoni che squillavano. Un microcosmo rumoroso che contrastava sempre con il silenzio ordinato di casa nostra.

Quel giorno, però, qualcosa era diverso.

Già dal parcheggio ho avuto una sensazione strana. Troppe auto vuote, troppo spazio libero. Ho pensato fosse orario di pausa pranzo, o magari una giornata di lavoro da remoto, come ormai succedeva spesso. Niente di davvero insolito.
Eppure, mentre camminavo verso l’ingresso, il rumore dei miei passi sembrava amplificato, come se l’edificio stesse ascoltando.

Le porte automatiche si sono aperte senza esitazione.

Dentro, il silenzio.

Non un silenzio rilassante, ma uno di quelli che ti fanno abbassare la voce anche se sei sola. La reception era vuota. Nessun addetto, nessun computer acceso, nessuna sedia fuori posto.
Ho guardato l’orologio. Era un normale martedì mattina.

«Pronto?» ho chiamato, più per abitudine che per convinzione.

Nessuna risposta.

Mi sono avvicinata al banco della reception. Sul monitor, lo schermo era nero. Accanto, una pianta che avevo visto altre volte sembrava leggermente appassita, come se nessuno se ne prendesse cura da giorni.
Ho sentito un leggero disagio, una sensazione che non riuscivo a definire. Non paura, non ancora. Piuttosto una specie di disallineamento, come quando entri in una stanza e senti che qualcosa non torna, anche se non sapresti dire cosa.

Ho deciso di salire comunque.

Conoscevo il piano in cui lavorava mio marito. Ho preso l’ascensore, aspettandomi di incontrare qualcuno, ma le porte si sono chiuse su un’altra bolla di silenzio. Il display ha segnato i piani uno dopo l’altro, senza fermarsi.

Quando le porte si sono aperte, il corridoio era deserto.

Le luci erano accese, perfettamente funzionanti. Le scrivanie visibili dalle pareti di vetro erano ordinate, come se tutti si fossero alzati nello stesso momento, lasciando tutto esattamente com’era.
Tazze di caffè mezze piene. Una giacca appoggiata allo schienale di una sedia. Un quaderno aperto, con una penna sopra, come se qualcuno dovesse tornare da un momento all’altro.

Ho camminato lentamente, sentendo crescere quella sensazione di estraneità. Era come trovarsi in una fotografia, in un luogo fermo nel tempo.

Sono arrivata alla scrivania di mio marito.

Era vuota.

Il computer era acceso, ma lo schermo mostrava solo il desktop. Nessuna finestra aperta. Nessun documento. Il suo taccuino era lì, chiuso. Ho appoggiato il badge accanto alla tastiera, con un gesto che improvvisamente mi è sembrato inutile.
Se non c’era nessuno, chi lo avrebbe trovato?

Ho preso il telefono per chiamarlo. Nessun segnale. Ho controllato: il cellulare indicava “nessun servizio”. Lì, in mezzo a un ufficio ultramoderno, mi sentivo improvvisamente isolata, come se fossi uscita dal mondo senza accorgermene.

Ho fatto un respiro profondo.
“Non essere ridicola”, mi sono detta. “Sarà una riunione. Un evento aziendale. Qualcosa di perfettamente normale.”

Eppure, non riuscivo ad andarmene.

C’era qualcosa che mi tratteneva, una curiosità inquieta. Ho continuato a camminare tra le file di scrivanie, osservando piccoli dettagli: una foto di famiglia, un disegno di un bambino, una pianta grassa ormai secca.
Era come leggere frammenti di vite improvvisamente interrotte.

Poi ho sentito un rumore.

Un suono lieve, quasi impercettibile. Proveniva dalla sala riunioni in fondo al corridoio. Un fruscio, come di carta mossa dall’aria.
Il cuore ha accelerato, ma ho deciso di avvicinarmi.

La porta era socchiusa.

Dentro, la sala era illuminata dalla luce naturale che filtrava dalle grandi finestre. Al centro, un lungo tavolo. Attorno, sedie vuote. Sulla parete, uno schermo acceso mostrava una presentazione bloccata a metà.
E sul tavolo… una pila di badge.

Decine di badge.

Uguali a quello di mio marito.

Li ho fissati a lungo, cercando di dare un senso a quella visione. Perché erano lì? Perché tutti insieme? E soprattutto, dove erano finite le persone che li avevano lasciati?

Ho sentito un brivido corrermi lungo la schiena.

In quel momento, il mio telefono ha vibrato.

Il segnale era tornato.

Un messaggio, da mio marito.

“Scusa, ho appena visto il messaggio. Non venire in ufficio oggi.”

L’ho chiamato immediatamente. Ha risposto quasi subito.

«Dove sei?» ho chiesto, senza nemmeno salutarlo.

Dall’altra parte, un attimo di silenzio. Poi la sua voce, tesa.
«Sei lì, vero?»

Non ho risposto. Non ce n’era bisogno.

«Ascoltami bene», ha detto. «Esci subito dall’edificio. Non fermarti. Non guardarti indietro.»

Il cuore mi batteva forte.
«Che sta succedendo?» ho sussurrato.

«Te lo spiegherò. Ma non lì.»

Ho chiuso la chiamata e ho fatto esattamente quello che mi aveva detto. Sono uscita dalla sala riunioni, ho percorso il corridoio, ho preso l’ascensore. Ogni secondo sembrava dilatarsi. Avevo la sensazione di essere osservata, anche se non c’era nessuno.

Quando le porte automatiche si sono richiuse alle mie spalle e sono tornata all’aria aperta, ho inspirato profondamente, come se stessi riemergendo da sott’acqua.

Solo più tardi, seduti al tavolo della cucina, mio marito mi ha raccontato tutto.

Non era una storia da film, né una spiegazione rassicurante. Era qualcosa di più sottile: un progetto aziendale chiuso all’improvviso, accordi di riservatezza, un trasferimento urgente. Tutto legale, tutto “normale”, eppure profondamente inquietante.
Quel giorno, tutti avevano lasciato l’edificio nello stesso momento, seguendo istruzioni precise. Nessuno doveva restare. Nessuno doveva tornare.

Io ero stata l’eccezione.

Da allora, ogni volta che passo davanti a quell’edificio, le finestre mi sembrano sempre un po’ troppo scure, un po’ troppo vuote.
E ogni volta che mio marito dimentica qualcosa prima di uscire di casa, glielo faccio notare subito.

Non perché abbia paura di restare sola.
Ma perché so che esistono luoghi che, una volta svuotati, non dovrebbero essere visitati per caso.

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